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Diairesis e dimostrazione.

1. Diairesi e dimostrazione.

Nella Politica (cap.2 del libro I), Aristotele dopo aver ricordato la sua definizione dell'uomo come "animale socievole", lo qualifica inoltre come quell'essere che si distingue dagli altri animali, con cui pure ha in comune la foné (la voce, la favella), in quanto è fornito di logos ed è, quindi, capace, grazie proprio a questa sua speciale dotazione, di crearsi un topos, di organizzarsi uno spazio che renda possibile la convivenza.

Logos, ragione, pensiero, discorso, parola; qui sicuramente significa anche: parola parlata.

Nel mondo greco, infatti, alla parola parlata è riservata una posizione di netta preminenza: è la parola pronunciata che rimanda all'idea; la parola scritta può svolgere la sua funzione solo perché, a sua volta, rimanda alla parola parlata, tramite necessario per raggiungere l'idea.

"I suoni emessi dalla voce sono i simboli degli stati dell'anima, e le parole scritte i simboli delle parole emesse dalla voce" afferma Aristotele al principio dell' Ermeneia (16 a 3-5), e aggiunge più avanti questa definizione del logos: il discorso è un suono vocale, foné, dotato di senso.

La stessa introduzione di variabili simboliche ("alfa", "beta" o anche "il primo", "il secondo"), cui Aristotele fa ricorso, in sostituzione dei termini, quando tratta di logica e di sillogismi, non modifica la situazione a favore della scrittura.. L'espressione scritta è, infatti, ricalcata su quella orale, che può perciò rifletterla fedelmente - i simboli possono venir letti e pronunciati senza tradirne il significato.

Così non avviene nelle scritture ideografiche (in cui il simbolo è direttamente in rapporto con l'idea che in esso si esprime) che la cultura occidentale ha imparato a conoscere e a cui si è, oggi, abituata.

Una scrittura ideografica, come quella della fisica o della matematica e delle loro formule, non può essere letta ad alta voce, non può tradursi vocalmente secondo la trama della lingua usuale, senza deformarsi.

Quando, ad esempio, vediamo scritto "A=B" pronunciamo "A è uguale a B" o anche "A uguaglia B". Così facendo, però, non solo esprimiamo al presente ciò che è espresso intemporalmente, ma per di più trasformiamo una formula di relazione, nel primo caso in una frase nominale, nella quale si attribuisce qualcosa ad un soggetto, nel secondo caso in una frase verbale, nella quale ciò che si indica è un'azione.

Pronunciare "A uguaglia B" equivale propriamente a dire "Il soggetto A sta svolgendo l'azione di uguagliare B".

Se nonostante queste imprecise traduzioni orali, noi non ci sbagliamo, è perché l'espressione orale ci rimanda alla formula scritta.

Si vede chiaramente che il testo autentico è ora la formula scritta, di cui l'enunciato orale darà poi solo un'approssimazione più o meno esatta.

Benché la scrittura che normalmente impieghiamo, sia, come quella dei Greci, fonetica, l'apprendimento almeno dei rudimenti delle scritture di tipo ideografico elaborate dal pensiero scientifico (con quel capovolgimento del rapporto lingua scritta/lingua parlata, che queste comportano), appartiene, oggigiorno, alla routine di qualsiasi curriculum formativo.

All'epoca di Aristotele, la centralità della lingua parlata non aveva eccezioni, neanche sul piano del sapere scientifico ed epistemico.

Il sentimento di questa centralità era stato fortissimo in Platone (si ricordi, nel Fedro, la tirata di Socrate contro la scrittura), il quale perciò aveva scelto di dare alle sue opere scritte una forma dialogica. La forma dialogica, infatti, meglio si approssimava, mimandola, alla realtà viva del colloquio tra persone coinvolte da una costante e comune esperienza, che era, per lui, l'unico luogo in cui la verità potesse davvero formarsi e trasmettersi.

Nell'orizzonte della polis, di quel patrimonio collettivo di problemi sentiti e condivisi, questa così stretta adesione alle ragioni dell'effettivo dialogare, voleva dire, per Platone, anche adesione ai contenuti depositati nella lingua e nel sapere della Città. Da questi contenuti, la ricerca doveva continuamente prendere le mosse; ad essi doveva continuamente ritornare; ad essi doveva ancorare ogni passaggio del suo movimento argomemtativo.

In dialoghi come, ad esempio, il Gorgia, dedicato alla dialettica e all'omologhia, questo è particolarmente evidente. Ma è fondamentale anche per quei dialoghi nei quali, come nel Sofista, la riflessione si fa più astratta ed assume un andamento più tecnico.

Nel Sofista, la dialettica diviene il metodo della diairesis, ossia della suddivisione, che, dato un genere (eidos), lo scompone nelle specie che lo costituiscono .

Combinandosi, "mescolandosi" tra loro, certi "concetti" danno luogo a "discorsi" (logoi) ed altri no, proprio allo stesso modo in cui certe lettere, legandosi tra loro, formano sillabe, e altre no.

Nel caso dei suoni elementari del linguaggio, osserva Platone, le vocali occupano una posizione privilegiata, in quanto è per loro tramite che le composizioni sillabiche diventano possibili.

L'arte (tecne) del "maestro di lettere" studia quali combinazioni di consonanti siano possibili con l'aiuto di una vocale e quali non lo siano. Analogamente, deve esistere una scienza capace di studiare in maniera simile i concetti, ed anche di indagare se esista una classe di essi che goda di caratteristiche paragonabili a quelle delle vocali, ossia tale da rendere possibili tutte le combinazioni (nel Sofista gli universalissimi o mégista géne su cui si discute sono: "essere", "movimento" e "riposo"), ed un'altra classe che produca invece distinzioni (253 C).

Ma questo, di suddividere una nozione generale precisamente nelle sue "specie" è appunto il compito della dialettica, la quale, così operando, può scoprire un' "idea" là dove essa, mescolata alle altre, si nasconde, e distinguerne una molteplicità là dove, formando un unico complesso, sembrava che ce ne fosse una sola.

Il dialettico cerca l'uno nei molti e i molti nell'uno (253 A-E). Egli non è soltanto il filosofo dell'unità, ma anche delle differenze.

Nel Sofista, il metodo della diairesis è illustrato con un esempio volutamente semplice e comune. In realtà, l'uso di tale metodo nell' Accademia era una cosa molto impegnativa e i suoi risultati, di grande rilievo, hanno fornito importanti contributi al pensiero scientifico.

Il caso che Platone sceglie è quello del pescare alla lenza; si tratta di definire questa nozione applicando il metodo della suddivisione (221 C - 237 A).

In termini generali, una descrizione di tale metodo può essere data nel modo seguente. Volendo definire una specie x (qui, il pescare alla lenza) si comincia con l'individuare una classe a (qui, la classe delle tecnai, delle arti), che sia più vasta di quella da definire e risulti abbastanza familiare da non sollevare dubbi sul fatto che la x in oggetto ne sia una suddivisone (che il pescare alla lenza sia una delle tecnai; una delle sottoclassi in cui si ripartisce la classe delle arti).

Il passo successivo consiste nella ricerca di una divisione della classe a in due sottoclassi b e c, nettamente separate tra loro e distinte per il fatto di possedere l'una e non possedere l'altra, una determinata caratteristica che noi sappiamo trovarsi in x (le arti vengono così suddivise in arti di fabbricare e arti di acquistare).

Chiamiamo b (arti di acquistare) la ripartizione destra e c (arti di fabbricare) la ripartizione sinistra di a.

Si continua tralasciando la ripartizione sinistra c, e suddividendo ulteriormente la ripartizione destra (arti di acquistare con consenso e arti che acquistano mediante cattura) in base allo stesso principio di prima.

Ripetendo il procedimento, si va avanti fino a che si perviene ad una ripartizione destra che, esaminata, si riveli coincidente con x.

Enumerando nell'ordine, nell'ambito della più vasta classe a, le caratteristiche in base alle quali abbiamo, passo passo, determinato ogni successiva ripartizione, otteniamo una completa definizione di x (nell'esempio riportato, pescare alla lenza sarà: l'arte di acquistare con cattura furtiva creature che abitano nelle acque e che vengono catturate di giorno con un colpo portato dal basso).

Come si vede, l'intero percorso presuppone: a) che si sia già adeguatamente informati sulla classe a, ossia sul "genere" che prendiamo come punto di partenza; b) che il carattere che di volta in volta indichiamo per la suddivisione di destra sia scelto in modo opportuno, tale cioè da essere rilevante per la specificazione di x, e inoltre passibile di nuove ripartizioni; c) che si sappia riconoscere il punto nel quale il procedimento può arrestarsi poiché x è già stato sufficientemente determinato e la nostra conoscenza dei fatti rende superfluo proseguire nella divisione.

Presuppone, oltre a molto acume da parte di chi applica il metodo e una buona competenza della materia trattata, anche, soprattutto, una totale immersione nell'universo linguistico nel quale si esprimono i pensieri e la sensibilità della formazione storico-culturale di appartenenza.

Se pescare alla lenza è proprio quella cosa che dice la definizione (ottenuta fermando il procedimento, che in astratto avrebbe potuto ancora continuare, là dove lo abbiamo fermato), è perché nel linguaggio parlato dalla comunità è così che viene chiamata ogni tecnica che abbia le caratteristiche menzionate.

La diairesis non è una procedura di tipo puramente formale; bensì uno scavo condotto nel vivo della realtà del linguaggio.

Quantunque neanche il sillogismo aristotelico possa definirsi una procedura puramente formale, tuttavia questa essenziale dipendenza, dell'indagine dialettica, dai contenuti del linguaggio e dalla rilevanza delle scelte operate dalla persona in essa impegnata, incontrò il giudizio negativo di Aristotele, che rifiutò di riconoscerle il valore di metodo dimostrativo (Anayt. prior., A, 46 a 31 sgg.).

Da l'uomo è un animale, un animale è o immortale o mortale , non discende che l'uomo è mortale (prendendo la "ripartizione" destra), ma solo che l'uomo è o immortale o mortale (ossia la vuota riaffermazione di quanto avevamo posto come premessa). Quale regola generale, infatti, costringe il ragionamento a passare dalla premessa (l'uomo è un animale, ogni animale è o immortale o mortale) alla conclusione (l'uomo è mortale) ?

Per ognuna delle tappe successive della divisione vale la stessa obiezione. Dunque, alla fine, osserva Aristotele, non si ottiene nulla di necessariamente conclusivo, di dimostrato.

Può darsi che, nel dire queste cose, Aristotele ce l'avesse con quei membri dell' Accademia che probabilmente avevano fatto un uso troppo disinvolto del metodo in questione.

Come critica a Platone, però, il rilievo appare fuori bersaglio.

Quando, come nel Sofista, ci viene detto che, dato che i cacciatori catturano la preda o con una trappola o ferendo, il pescatore alla lenza è un cacciatore che cattura ferendo, è perché si presume che si sappia già che amo e filo non sono una trappola. Platone non intende affatto dimostrare questo punto; bensì assumerlo in quanto parte di quel patrimonio conoscitivo comune cui la dialettica fa sempre consapevolmente riferimento.

2. Dialettica e "riduzione logica"

Nel Fedro, Platone si era già soffermato sul metodo della "divisione".

Discorrendo della dialettica con il personaggio che dà il nome al dialogo, Socrate aveva mostrato come questa consistesse nell'azione combinata di due distinti procedimenti (265 C - 266 A).

Perché si possa percorrere la via delle suddivisioni successive occorre, infatti, come abbiamo visto, un punto di partenza; qualcosa che possa venir appreso in modo chiaro e tale da non suscitare controversie.

Ci possono essere situazioni in cui una nozione è abbastanza familiare da prestarsi allo scopo, possedendo i requisiti richiesti. Nella maggioranza dei casi, tuttavia, la cosa può non essere così immediata e ottenere una nozione sufficientemente stabile e affidabile è una sfida cui il pensiero può rispondere solo applicandovisi in modo specifico.

Esso deve, ora, fare i conti con la ricca molteplicità delle cose, che potrebbe disorientarlo e impedirgli di afferrare la definizione di cui è alla ricerca.

In questo suo compito ascendente, la ragione deve saper cogliere le affinità che avvicinano fenomeni che pure appaiono diversi, riunendoli in ben definiti genera, in modo che tutti possano rivelarsi come membra sparse di un'unica singola "classe", manifestazioni di un'unica idea ( i d e a ).

Il metodo che porta alla "visione d'insieme, alla sinossi, è, dunque, un gravoso impegno per la ragione dialettica, non meno di quello della "divisione".

I dialoghi che Platone ha prevalentemente dedicato a questo aspetto dell'indagine filosofica, mostrano che neanche in questo caso la dialettica perde il suo contatto con i contenuti e con la cultura della polis.

Nel Menone, per esempio, volendo far vedere che "apprendere" è "richiamare alla mente" (anamnesis), ad un certo punto del dialogo (82 B - 85 B), Socrate chiama a sé il ragazzo che accompagna il suo interlocutore, per mostrare come questi, benché completamente privo di competenze matematiche, possa tuttavia venir condotto a scoprire verità di questo tipo unicamente sulla base di una serie di domande appropriate che mettano l'interrogato in condizione di correggere le sue prime affrettate risposte.
L'acquisizione di conoscenza, non è per Platone passiva recezione di nozioni, bensì il frutto di un costante sforzo del pensiero, che, sotto lo stimolo delle esperienze, arriva a coglierne la ragione (aitia; cfr. 98 A), l' ordine intellegibile che l'esperienza stessa suggerisce senza poterlo, però, rappresentare o definire in modo adeguato.

Ed è interessante osservare che, prima di intraprendere il cammino che porterà il ragazzo alla soluzione del problema che gli viene proposto, tutto ciò di cui Socrate ritiene di doversi accertare, e che gli chiede, è se conosca la lingua greca.

Questo passaggio non deve essere sottovalutato: chiunque può raggiungere la verità se padroneggia sufficientemente il linguaggio nel quale avviene la comunicazione socratica.

L'enfasi sul linguaggio è particolarmente notevole qui, perché il dialogo che Socrate e il suo giovane interlocutore si accingono ad intraprendere non concerne il significato di un termine, che so, del termine arete (che è il tema principale dell'intera discussione tra Socrate e Menone), bensì un problema di geometria che comporta soltanto un disegno, i numeri e le relazioni geometriche che intercorrono tra gli elementi della figura.

Con il semplice bagaglio di alcune nozioni elementari di aritmetica, nonché del significato comune di parole come "quadrato" e "linea" (Socrate si limita ad introdurre soltanto il termine "diagonale", con cui, dice, una certa linea viene tecnicamente chiamata dai "professionisti" della materia), lo schiavo può percorrere la strada che lo porterà, alla fine, a conoscere (epistesetai) l'oggetto dell'indagine, non meno accuratamente, osserva Socrate, di quanto potrebbe fare chiunque altro che fosse analogamente sottoposto a domande "molte volte e in molti modi differenti" (85 C 10).

Lo schiavo, cioè, non trova la soluzione seguendo un cammino dimostrativo-deduttivo, di tipo euclideo, ma attraverso la ripetuta applicazione dell'interrogazione dialettica a partire da un terreno di "informazioni" condivise.

Nella Repubblica, Platone si sofferma sulla distinzione tra dialettica e metodo matematico, intendendo, con quest'ultima espressione, quel metodo che punta a conoscere esattamente il valore dei propri presupposti iniziali e a dedurne le conseguenze in modo rigoroso e nel giusto ordine.

Le critiche di Platone si concentrano su quelli che gli appaiono i due limiti principali del pensiero matematico a lui noto ( ossia del pensiero matematico del V secolo, dei cui postulati già Zenone aveva dimostrato la contraddittorietà, e su cui molti degli ingegni del IV secolo, come Eudosso o Teeteto ed altri dell' Accademia, stavano lavorando nel tentativo di ricostruirlo interamente - che è poi la ricostruzione che ci è stata tramandata dagli Elementi di Euclide): i matematici sembrano incapaci di staccarsi dalle figure sensibili (questo "quadrato" o questa "diagonale" qui disegnati), benché le loro dimostrazioni vertano, in realtà, su oggetti generali (il quadrato e la diagonale) che non sono visibili e non possono essere colti se non con l'occhio della mente (Rep. VI, 510 D-C); i matematici basano tutto il loro ragionamento su certi "postulati" (ipothéseis) di cui essi "non danno alcuna ragione" (logos) e che sono assunti senza prova (VI, 510 C-D).

La dialettica, invece, senza fare appello ad alcun aiuto sensibile per l'immaginazione (e quindi acquistando così una maggiore flessibilità) considera i postulati iniziali come punti di avvio per un'ulteriore approfondimento dell'indagine razionale, dandosi come compito il raggiungimento di verità senza presupposti (anipótheta) e, quindi, con procedimento discendente a partire dal risultato ottenuto , passa da idea ad idea attraverso altre idee fino a trovare la sua conclusione soltanto nelle idee (VI, 511 B-C).

Queste parole, che Platone mette in bocca a Socrate, pongono in realtà molti problemi e chiedono di essere interpretate.

Per il Taylor, ad esempio, esse significano: 1) che la dialettica di cui parla il filosofo ateniese sostanzialmente coincide con il pensiero auto-critico e auto-emendantesi della scienza moderna, costantemente impegnata a fornire una più accurata e completa precisazione dei suoi "concetti primitivi", a rivedere i suoi stessi "postulati"; 2) che la dialettica coincide con quello speciale tipo di pensiero auto-emendantesi che insegue l'ideale di una riduzione di tutto il sapere razionale a premesse logiche chiaramente formulate, da cui questo sapere possa essere, a sua volta, riottenuto per deduzione rigorosa attraverso l'impiego di metodi logici esattamente definiti - di cui, sostiene il Taylor, la riduzione cartesiana delle scienze naturali a geometria e il logicismo di Frege e Russell rappresentano dei "magnifici esempi".

L'interpretazione del Taylor ha certo il pregio di ricordare quanto la storia della scienza moderna debba alla dialettica, che perciò non è né estranea né in collisione con la razionalità che essa esprime.

Ma l'identificazione di pensiero dialettico e di pensiero scientifico sembra sottovalutare alcune importanti differenze che li distinguono.

Quando, preso un certo datum, ci rivolgiamo alle scienze (fisica, matematica, neurofisiologia, psicologia ecc.) per cercarne una spiegazione, noi ci imbattiamo in una molteplicità di risposte (si pensi, ad esempio, alle diverse rappresentazioni del comportamento umano che possono darci la neurofisiologia o la psicologia), in ciascuna delle quali si manifesta la speciale metodologia e il modo altrettanto speciale di formulare il problema, che ciascuna di quelle scienze adotta in relazione alle coordinate teoriche assunte, ai suoi "postulati", ai suoi "concetti primitivi".

Ma, quando postosi di fronte al medesimo datum, Socrate si chiede che cos'è? (ti esti), egli mostra di non volersi fermare a questa o quella delle risposte che la cultura ha elaborato e reso disponibili, né tanto meno innalzare un certo approccio privilegiandolo sugli altri (come oggi farebbe chi, fatta sua una determinata chiave di lettura, ad esempio una determinata visione psicologica del comportamento umano, ritenesse questa davvero risolutiva; cercasse in essa la risposta, relegando le altre ad un ruolo subordinato o derivativo). La sua preoccupazione sembra piuttosto quella di un'intelligenza che, affaticandosi intorno alla molteplicità delle rappresentazioni effettivamente prodotte (a ciò che gli uomini dicono e pensano di quella certa cosa), avverte come queste si richiamino l'una con l'altra, rimandino l'una all'altra, e ne cerca l'intreccio, la ragione in base alla quale tutte quelle rappresentazioni possano venir "derivate" come lati, vedute parziali, della medesima cosa.

C'è, insomma, un'esigenza di globalità nella dialettica, i cui scopi e i cui interessi rimangono distinti da quelli delle scienze - ed è questa stessa esigenza di globalità che la motiva, che la spinge a scavare nelle determinate rappresentazioni, a ricondurle ai loro "postulati" e a mettere in discussione questi "postulati", o, come dice Platone, ricorrendo significativamente ad un'immagine estrema, a "distruggerli": la dialettica mira a "distruggere" (anairein) i presupposti dei saperi esistenti (Rep. VII, 533 C).

Per quanto riguarda l'interpretazione al punto 2), è lo stesso Taylor a fornirci l'argomentazione che ci consente di smentirla.

Parlando del Sofista, della diairesis e delle critiche di Aristotele, l'autore, infatti, insiste giustamente su come queste critiche siano il frutto di un'incomprensione; su come il metodo platonico della "divisione" non sia una dimostrazione nel senso di un procedimento garantito da regole generali.

Perciò se vi è derivazione nella dialettica, questa non può essere nel senso della Logica, né quella antica, né quella moderna e contemporanea.

3. La forma della proposizione.

Le precedenti considerazioni implicavano il rifiuto della la tesi che vorrebbe vedere nella dialettica platonica l'espressione di un pensiero logico ancora in embrione, ancora immaturo rispetto agli sviluppi e alle sistematizzazioni della riflessione successiva (e secondo la quale, la diairesi sarebbe solo un tentativo, imperfetto e ancora lacunoso, di dimostrazione), a favore della prospettiva che ne sottolinea, invece, l'autonomia e l'originalità

Dobbiamo abituarci ad accettare l'idea che possano esistere stili di pensiero che sono e rimangono distinti, ossia non riducibili l'uno all'altro; e piuttosto che forzarli, costringendoli nel letto di Procuste di schemi esplicativi unitari, cercare di capire che cos'è che li fa diversi, mettendoli a confronto.

Quantunque la logica aristotelica si sia formata sul terreno delle discussioni sollevate dalla filosofia platonica e dal suo approccio dialettico, essa è però il frutto di un diverso atteggiamento mentale.

Questo è abbastanza chiaro, nel caso della teoria del sillogismo, che Aristotele sviluppò per correggere quelli che a lui apparivano i "difetti" del "metodo della divisione".

Negli Analitici Primi, dove appunto si tratta di questa teoria - il cui obiettivo, come è noto, consiste nel fissare regole che assicurino la correttezza dei processi inferenziali (ossia di quei processi argomentativi in cui si traggono conseguenze a partire da certe premesse) propri del pensiero scientifico - , Aristotele collega la possibilità stessa del sillogismo all'analisi della proposizione nella forma soggetto-predicato.

Egli assume, cioè, che condizione decisiva perché regole del tipo detto possano venir fissate, è che i processi inferenziali possano esser ricondotti ad un ben preciso modello generale e, quindi, visti come processi che producono un composto soggetto-predicato di due termini (la proposizione-conclusione), ottenuto da altri composti soggetto-predicato (le proposizioni-premesse) in cui ciascuno dei due termini della conclusione si trovava unito ad un terzo termine (il termine medio).

Ma cos'ha di particolare questa analisi della proposizione nella forma soggetto-predicato?

Consideriamo i seguenti esempi:

(1) la rosa è rossa;

(2) Roma è più grande di Atene;

(3) Barbarossa è Federico I.

Evidentemente, ciò che tutti e tre hanno in comune è la parola "é".

Tuttavia, il significato di questa parola non è lo stesso nei tre casi.

E, infatti, mentre nell'esempio (1) essa attribuisce una proprietà (denotata dal termine in posizione di predicato) a ciò cui si riferisce il termine in posizione di soggetto; in (2) indica una relazione ("più grande di "); in (3) un'identità.

In realtà, quando costruiamo le nostre inferenze, certe volte facciamo uso di composti soggetto-predicato del tipo (1) che colleghiamo in argomentazioni di tipo sillogistico, altre volte, invece, concludiamo sulla base di relazioni, quali l'uguaglianza, l' "a destra di" e simili. Di questa seconda specie di inferenze - le inferenze relazionali - fa largo uso la matematica.

Di solito, quando si vogliono mettere in rilievo le inferenze relazionali (di cui le proposizioni relazionali costituiscono la materia prima), sottolineandone la specificità e la loro non riducibilità a quelle sillogistiche (materia prima delle quali sono le proposizioni soggetto-predicato), alla "é" viene riservato un posto d'onore e una considerazione particolare. Ad essa, infatti, spetta l'importante compito di dare unità alla frase, mettendo in connessione gli altri termini che vi ricorrono, secondo diverse modalità che possono venir individuate e distinte - di cui quella soggetto-predicato è solo una, tra le varie possibili.

Quando, invece, sono le inferenze sillogistiche ad essere privilegiate e si assume che tutte le proposizioni possano, almeno in linea di principio, venir ridotte allo schema soggetto-predicato esemplificato dalla (1), non è più alla "é" che viene tributato il primo piano e le luci della ribalta , bensì ai termini che svolgono la funzione di soggetto e di predicato.

Quello che conta ora, infatti, è che lo stesso termine che in una frase svolge la funzione di predicato possa, in una frase diversa, svolgere quella di soggetto, perché è proprio questa sua capacità di impersonare ruoli diversi, che rende praticabile una teoria del sillogismo.

Negli Analitici Primi, Aristotele imbocca questa seconda strada e gli interpreti, naturalmente, si sono chiesti che cosa lo spingesse ad operare una scelta del genere e a non riconoscere la specificità delle relazioni.

Il fatto è che, di fronte a frasi come "Tizio è figlio di Caio" e "3 è successore di 2", nelle quali ricorrono le relazioni "figlio di" e "successore di", non è facile vedere a "occhio nudo", diciamo, senza l'ausilio di una adeguata ideografia (come cercheremo di chiarire più avanti), se e perché hanno qualcosa in comune e dovrebbero venir catalogate insieme.

Ancora più difficile sarebbe tentare di enumerare tutte le possibili varietà di inferenze relazionali. Una enumerazione completa delle inferenze sillogistiche è, invece, realizzabile.

E' dunque una preoccupazione classificatoria quella che spinge Aristotele a compiere la scelta che compie e a preferire l'analisi soggetto-predicato delle proposizioni.

Com'è noto, la teoria platonica delle idee si trovava molto più a suo agio con le relazioni (e con la matematica).

D'altra parte, lo stesso Platone si era mostrato consapevole che se si identifica l'attività concettuale del pensiero con la funzione predicativa del linguaggio - ossia se si identifica il concetto con il fatto che, nel linguaggio, lo stesso predicato si trovi applicato a cose diverse -, il mantenimento della nozione di idea ( i d e a ), che è appunto quanto si rivelerebbe nell'uso di un predicato comune per cose diverse, genera difficoltà.

Nel Parmenide, il filosofo di Elea, cui Platone mette in bocca le possibili critiche alla sua teoria, espone questa difficoltà (132 a-b). Perché un predicato comune, per esempio: "è bello", non potrebbe essere affermato della stessa bellezza, della stessa idea? In tal caso, però, bisognerà ammettere che vi é una seconda idea, che si rivela in questa estensione del predicato alla prima, e, analogamente, per la stessa ragione, una terza, e così via all'infinito.

Si noti che questa obiezione non avrebbe diritto di cittadinanza in una logica relazionale, in cui l'esprimere un concetto non si identificasse con l'enunciare un predicato.

Per dimostrare la fallacia dell'obiezione, il Taylor porta questo esempio: "David e Jonathan sono una coppa di amici, Oreste e Pilade sono un'altra coppia. Ambedue le coppie hanno qualcosa in comune, il numero cardinale 2, che è il numero dei membri di ciascuna coppia. Ma il numero 2 non è esso stesso una coppia; è un numero, e non si può dire che abbia un numero".

"Amico di" è una relazione ("Oreste e Pilade sono amici" non si può scomporre in: "Oreste è amico" e "Pilade è amico") e la logica moderna rappresenta le relazioni a due posti mediante coppie, ossia insiemi costituiti dai due termini della relazione.

Nel Parmenide, sostiene il Taylor, ciò che Platone si prefigge è soltanto riprodurre le critiche degli eleatici alla dottrina della "partecipazione", allo scopo di smontarle col mostrare che il loro stesso metodo può essere ritorto contro le loro teorie con efficacia anche maggiore. Quantunque non rilevi esplicitamente la fallacia, non c'è alcun motivo per supporre che Platone non fosse consapevole di questa stortura logica.

Storicamente, la logica come disciplina si sviluppa nella direzione impressale da Aristotele.